Mi sono dedicata ai bambini per tantissimo tempo. Ho fatto la tata, la babysitter, ho giocato, intrattenuto, amato e mi sono occupata di centinaia di bambini. I bambini parlano al mio cuore. Finché il 6 febbraio del 2013 ho ricevuto il dono più grande: una bimba mia. Il mio piccolo amore personale. Ma mai mi sarei aspettata che tutto iniziasse nel modo in cui effettivamente cominciò.
Dopo il parto ero messa male, per il trauma e per il ricovero di mia figlia in TIN. Per le sue prime 16 ore di vita fummo separate. Quando finalmente ci riunimmo, ero pronta a sentire l’amore, la gioia, l’esplosione delle emozioni, era tutto nelle mie aspettative, era tutto quello che stavo sognando, ma quando posero mia figlia tra le mie braccia, nonostante fossi rapita da lei, quelle sensazioni non arrivarono mai.
Non ci feci caso più di tanto e andammo a casa. Dopo parecchi giorni annebbiati, arrivò l’oscurità. Ci furono tante lacrime, tanta tristezza, ma continuavano a dirmi “è normale, è il baby blues, passerà”.
Era un giovedì e non avevo tenuto in braccio la mia bambina praticamente per niente. Non ci riuscivo. Toccarla, sapendo che la mia identità spezzata era responsabile per quella piccola vita indifesa…che dovevo provvedere alle sue necessità…che mi dovevo occupare della sua sicurezza, mi dilaniava. Non so come, dove o perché, in quel momento apparve l’alba. Tuttora lo ignoro. Mi tiravo il latte, allattavo quando riuscivo a tollerarlo, e rimanevo in un angolo della casa a piangere, mentre mio marito si occupava della nostra bambina.
Quel giovedì, parlai. Dissi a mio marito quello che pensavo. Che non volevo questa vita, e che se questa era la mia sola opzione, non la volevo, preferivo morire e gli recitai per filo e per segno, come avevo intenzione di suicidarmi.
Lo vidi sbiancare. Immediatamente si adoperò per trovare qualcuno che si occupasse della bambina.
Mi portò dal dottore. Il mio peso. L’altezza. La pressione. Il questionario. Compilai il questionario, risposi priva di interesse, svogliata e dissi quali erano le mie considerazioni. No, non volevo far del male a mia figlia. No, non le avevo fatto del male. No, non avevo fatto del male a me stessa. Sì, probabilmente lo avrei fatto. Rimasi stesa e imbambolata sul lettino del medico. Poi entrò la mia ostetrica e pianse insieme a me. Mi strinse, mi accarezzò i capelli e mi diagnosticò una Depressione Post Partum.
Le settimane che seguirono furono un turbinio di lacrime. A subire gli stessi sentimenti e a combattere quella stessa voce che mi diceva che non volevo più vivere. Medicine, dottori, lacrime. Lava, risciacqua, ripeti, e così via, altro giro, altra corsa.
Andai avanti così per circa due settimane, finché non ebbi abbastanza autocontrollo perché l’autolesionismo fosse ormai solo un timore. Quei pensieri c’erano ancora, ma erano solo pensieri. Mi costava ancora un enorme sacrificio stare nella stanza con mia figlia. Se le avessi carezzato i soffici capelli, o coccolato le guance morbide o la dolce testolina, sarei stata invasa da una tale sensazione di fallimento, così forte da togliermi il respiro. Non c’è inferno peggiore di essere impossibilitata a cedere all’amore per la tua stessa bambina.
Così iniziai a cercare su Google modi per poter stare con una bambina che non potevi toccare.
Una cosa strana da cercare in internet. Ma questo è stato il risultato della ricerca: Babywearing.
Un’arte vecchia di secoli. Qualcosa di naturale e innato per una madre che voglia stare a contatto col proprio bambino. Ovunque nel mondo le donne indossano i propri bambini. In modi diversi, per ragioni diverse, ma ovunque c’è lo stesso meraviglioso risultato: un bambino che riceve contatto, e si sente sicuro e consapevole. Un bambino che fa esperienza della vita e a cui viene insegnato che è importante, le cui necessità saranno soddisfatte nello stesso momento in cui imparerà che il mondo accade intorno a lui e nonostante lui, e non solo per lui. Una cosa meravigliosa, uno strumento per realizzare, per insegnare, amare e accudire.
Lessi, lessi e lessi. Mi riempii la mente di conoscenza. E mio marito era sempre accanto a me, pronto a soccorrermi quando venivo sopraffatta. Riesumai la Moby che mi era stata regalata ( grazie Nancy) e iniziai a fare pratica col gatto.
Quando mia figlia aveva tre settimane la misi in fascia per la prima volta. Fu sorprendentemente strano. Tutto il mio corpo emanava elettricità a contatto con quel corpicino. Tuttavia le mie mani erano “libere”. E per la prima volta tenni quella personcina senza effettivamente tenerla tra le braccia. Si accoccolò a me e si addormentò. E nonostante avessi già riacquistato il controllo di me stessa, fu questo il primo progresso che IO sentii di aver fatto. Speranza. Un tenue lumicino, minuscolo, ma decisamente presente, di speranza. Una luce alla fine del mio tenebroso tunnel.
Per tante ore quante potevo sopportarne, tutte le volte al giorno che volevo, mettevo con cura la mia bambina in fascia e riprendevo a fare le mie cose. Quando venivo sopraffatta, mio marito accorreva e provvedeva a quelle cure di base che io non ero ancora in grado di adempiere. Ma ogni giorno, ogni volta, che prendevo la fascia, ogni volta che la mia piccola gorgeggiava e si accoccolava a me, felice del mio contatto, quella piccolo lumicino di speranza cresceva e si espandeva. La Moby riempiva il vuoto. Tenevo la mente occupata e mi distraevo mentre il corpo aveva ciò di cui aveva bisogno. La fascia creava un ponte tra la mia mente spezzata e il mio cuore, tra la mia vecchia vita e la nuova, tra la mia dolcissima bambina e il mio io disperato.
Ho comprato la mia prima fascia tessuta il giorno che fui finalmente in grado di prendermi cura di mia figlia. Una ricompensa per me, un monito. La Kokadi Teo Stars era la mia meravigliosa pietra miliare e per me era l’equivalente di un oro olimpico. Cominciò una nuova ossessione, che mi aiutò a rifinire e a perfezionare quel ponte, il ponte tra la mia mente non più così spezzata e il mio cuore. Le mie due vite si stavano riunendo in una nuova armonia. Erano passate quattro settimane da quando finalmente ero riuscita a tenere in braccio per la prima volta la mia bambina senza farmi prendere dal panico. Quando, sempre con cautela (per quanto goffamente), mettevo la mia bambina nella nuova fascia, lei mi guardava e SORRIDEVA.
Quel sorriso. Il lumicino di speranza esplose e spazzo via le tenebre del tunnel. Quella fascia. Quel sorriso. Quel momento. Mia figlia aveva sette settimane il giorno che io divenni sua madre. E tutto grazie al babywearing. Per qualcuno è questione di comodità, per altri di sanità mentale. Per me è stato un salvavita. Le mie fasce potranno essere “costosi pezzi di stoffa”, o “sopravvalutate” o “ degli strani aggeggi”, ma la capacità di sentire il contatto fisico con mia figlia mentre potevo distrarmi in sicurezza, per me, non ha prezzo.
Il solo MALE della depressione post partum è come ti fa sentire e come può far sentire gli altri a riguardo. Non hai fatto nulla per meritarlo. Non sei una cattiva mamma. Ognuno ha le sue cose, questa è stata la mia. Perciò, alle mamme che hanno la depressione post partum, o con le braccia stanche, o a quelle mamme che semplicemente hanno un impellente BISOGNO di lavare quel dannato pavimento, perché è una cosa normale e non ricordate più cosa sia la normalità, portate i vostri bambini. Come volete, dove volete, quando volete. Non si sa mai come questo possa cambiarvi.
Articolo e foto di: Scary Mommy (traduzione di Linda Covato, consulente Babywearing Italia in formazione)